Orizzonti 6

Aprile 2010 . Timergara, Pakistan. Confine Afghano –Pakistano
Un paese che mi aveva accolto con il suo chiasso caldo, la sua lingua urlata e incomprensibile , a notte fonda.
Due giorni ad Islamabad per imparare le regole da non violare mai . Il mio posto di lavoro sarebbe stato un paese fondamentalista islamico.
Io ero la seconda donna che avrebbe lavorato lì.
Piegare la testa di fronte ad uomo, portandosi la mano al petto, il velo a coprire interamente il viso , lasciando scoperti solo gli occhi, come disporsi in macchina a seconda di quanti uomini erano presenti, come non mancare mai , mai di rispetto ad un uomo.
Ne andava non solo della sicurezza personale , ma di tutto il team.
A circa un’ora da Islamabad il mio autista si fermò bruscamente e mi fece cenno di indossare il velo.
Da allora in poi non avrei più potuto toglierlo. Solo in ospedale era permesso scoprire il viso, ma non i capelli.
Quel gesto così semplice, cambiò di colpo il mio stato. Ero diventata invisibile agli occhi degli uomini.

Arrivammo a casa dopo un lungo viaggio silenzioso, attraversammo montagne e distese brulle. Alla fine ci inerpicammo lungo una collina fatta di miseria e stracci. Era la nostra meta.
Incontrai l’anestesista che sarebbe partito da li a pochi giorni , cui io davo il cambio , passammo la sera a parlare. Mi spiegò il clima dell’ospedale , il lavoro , l’organizzazione.
La mattina dopo avremmo lavorato insieme e poi lui sarebbe partito per Islamabad a poi casa, in Europa.
Ma il giorno dopo le sue condizioni di salute non erano buone ed io fui la sola anestesista in ospedale quella mattina.
Altri colleghi, filippini, russi mi accolsero nel blocco operatorio e nelle corsie per far si che io potessi orientarmi .
Era un giorno tranquillo, il sole che si affacciava dalle montagne intorno a noi .
Gli edifici dell’ospedale erano separati ed io andai nel piccolo edificio con la sala operatoria per capire come erano disposte le cose . La vera prima regola per poter fare il proprio lavoro. L’anestesista è un lavoro solitario, è indispensabile sapere dove è cosa. Tutto deve essere automatico. Ogni gesto.
Mi raggiunse il medico russo e ci mettemmo a parlare dell’ospedale, dei pazienti, di come tutto era organizzato.
Lo ricordo benissimo, seduti su due sedie, uno di fronte all’altro. La sala operatoria vuota. Nessuna urgenza quella mattina.
Un boato infernale sbriciolò le nostre parole in mille schegge.
Ci guardammo negli occhi senza dire.
Era esplosa una bomba , vicinissima a noi.
Entrambi iniziammo a correre verso il pronto soccorso, mentre una folla con i vestiti sporchi di sangue correva nel senso opposto.
Negli occhi il terrore, mentre cercavano di scansarci, spingendoci se necessario, nella loro corsa verso la salvezza attraverso vialetti di terra battuta.
Davanti all’ingresso del Pronto Soccorso una folla urlante, armata di mitra, trascinava corpi all’interno del corridoio.
La follia , la tensione , la morte , tutto si mescolava nell’aria tersa del mattino .
Aprimmo la porta a due ante del Reparto.
Davanti a noi il corridoio che portava alla stanza in fondo.
Vedemmo solo una distesa di corpi e sangue. Le urla rimbombavano tra quelle mura.
Iniziammo a camminare verso il fondo del corridoio, inciampavamo nei corpi, le persone a terra cercavano di afferrarci con i loro arti mutilati perché ci occupassimo di loro. Le ossa sbriciolate si attaccavano ai nostri vestiti , insieme a brandelli di carne e sangue .
Decidere chi curare. In situazioni del genere è la cosa più brutale che si debba fare.
Gli ordini delle cose si sovvertono, la pietà si deve piegare al tempo. Ed il tempo è poco. Il tempo è feroce quando la morte invade le stanze. E’ necessario salvare più gente possibile . E chi richiede troppo tempo va lasciato morire. Chi ha poche speranze di farcela, non nessuna ma poche , va lasciato morire.
Chi impegnerebbe a lungo un medico o risorse con esiti incerti, va lasciato morire.
E’ un processo infinitamente difficile dentro sé stessi. Scegliere con la precisione di un cecchino, chi abbandonare al proprio destino, lasciandogli solo la dignità del morire in disparte, senza soffrire.
Sapere che in altri momenti avresti tentato e non poterlo fare.
Ogni essere umano che metti in quella stanza a morire porta via un pezzo della tua innocenza.
Gli occhi con cui guardi la vita non saranno mai più gli stessi.
Ma non hai scelta. E’ la sola cosa possibile, per quanto orribile e cruda.
Sei stato preparato a questo, programmato per farlo. Ma quando ti trovi a doverlo vivere è straziante.
I medici e gli infermieri locali non capivano il nostro abbandonare i morenti, ci guardavano con occhi sgomenti e riprendevano quei corpi martoriati per riportarli a noi .
La stanza dove li lasciavamo morire era in fondo al corridoio, a destra della piccola camera del Pronto Soccorso, capace al massimo di ospitare tre letti.
E noi dovevamo ripetere in fretta quel gesto di morte. Ancora ed ancora. Superare quell’angolo faticando nel sollevare i corpi.
Indicavamo quella stanza dove lasciare morire con dignità quelle persone. Cercavamo in fretta di spiegare di non farlo, di non riportare quei corpi verso di noi.
Mentre i feriti continuavano ad ammassarsi in quel corridoio che sempre più assomigliava ad un girone dell’inferno.
Il sangue sui muri, per terra , con il suo odore dolciastro, avvolgeva gambe e braccia senza più padrone. Le arterie spruzzavano come tubi impazziti, gli schizzi di sangue colavano piano sul muro e arrivavano a terra.
Caos, urla , dolore , armi.
E il tempo che correva contro di noi.
Fermavamo le emorragie come potevamo, con lacci, con pinze, afferrando le mani dei parenti e lasciandole a premere sulla vita, chini su questa distesa di persone. E passavamo oltre. Cercando tra i morti, le persone da trattare.
Sembrava una lotta impari . La morte era sempre un passo avanti a noi.
Centocinquanta feriti, ammassati in un corridoio angusto che si apriva su una piccola stanza. Cataste umane contro pochi medici.
Qualcuno iniziò ad allontanare i cadaveri, altri non permettevano che la stanza “ nera “ vomitasse ancora i più disperati nel corridoio infernale.
Accorse in aiuto un’altra organizzazione che evacuò 35 persone in elicottero.
Noi iniziammo a trasferire i pazienti da operare in sala operatoria. Trasportati a mano per gli stessi vialetti ormai imbrattati di sangue
Allestimmo una seconda sala di fortuna nella stanza accanto alla sala operatoria . Non c’era personale né apparecchiature. Ma ognuno faceva oltre il limite del possibile.
Cercammo donatori di sangue ovunque fosse possibile. Le strade erano chiuse, le linee telefoniche saltate.
Restammo due giorni in quelle sale, senza mai smettere di operare. Dimenticandoci di bere o mangiare.
Improvvisamente arrivò la fine dell’inferno. Improvvisamente il silenzio nelle sale. Nessun altro paziente da operare. Era tutto finito.
Solo allora sentimmo tutti una stanchezza infinita, un dolore immenso.
Forse solo allora ci accorgemmo di essere esseri umani, testimoni di un massacro.
Avevamo lottato tutti, fino allo stremo delle forze, ma la morte si era portata via più di 60 persone.
Aveva vinto quell’uomo che si era fatto esplodere accanto all’ospedale, durante un comizio.
Credo che ognuno di noi abbia pensato questo, lasciando l’ospedale.
Passando davanti a quel corridoio che ora veniva lavato con le pompe e l’acqua rossa tingeva la terra.
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