«Condannata a 15 anni per un omicidio che non ha mai commesso, lo dimostreremo»
Sabrina Chiellini
Marco Valerio Corini è morto il 25 settembre 2015, lo stesso giorno in cui aveva programmato un incontro ad Ameglia col notaio, per precisare le sue volontà sul testamento.
Quel giorno Marzia aveva già preso accordi per recarsi a Bologna per 48 ore, con un’amica di infanzia, Amanda Sandrelli. Secondo la procura, la morte di Marco, malato terminale di cancro, è stata indotta da un’overdose di Midazolam, a lui iniettato dalla sorella.
La Corte d’Assise di La Spezia ha condannato a 15 anni Marzia Corini, ritenuta responsabile della morte, con una sedazione letale, del fratello. Assieme a lei è stata condannata a quattro anni di reclusione anche l’avvocato ed ex collega di studio della vittima, Giuliana Feliciani.
Le motivazioni si conosceranno a metà agosto. Ora gli avvocati Tullio Padovani e Anna Francini del Foro di Pisa, che assistono Marzia Corini, rompono il silenzio che ha accompagnato cinque anni tra indagini e processo.
Avvocato Francini, lei dirà che le sentenze non si commentano. Marzia si è sempre professata innocente, ed ha sempre smentito il movente che il Pm ha individuato nell’eredità Quale è stata la vostra reazione?
«La nostra iniziale reazione è stata di indignazione, incredulità, sconcerto ed un grande dolore perché Marzia è innocente e non ha mai commesso l’omicidio che le viene contestato. Ora che un po’ di tempo è trascorso – la sentenza è del 17 maggio – crediamo che sia giusto dire alcune cose. Non tanto in difesa di Marzia, che è stata difesa nel processo. Leggeremo le motivazioni e vedremo cosa ha spinto i giudici ad aggirare quegli ostacoli che ai nostri occhi erano insuperabili. In questi cinque anni non ci siamo prestati a quel gioco al massacro che è stato il linciaggio che Marzia ha subito. Peraltro il tempo necessario per il processo è stato talmente tanto che non avremmo mai potuto prestarsi al gioco degli articoli di replica e delle querele, che molti si sarebbero meritati. Abbiamo fatto il nostro lavoro fiduciosi nella giustizia e noncuranti delle calunnie».
Ci racconta della vita della dottoressa Corini?
«Marzia ha lavorato 20 anni all’Ospedale di Pisa durante i quali Marzia ha partecipato a missioni all’estero in zone di guerra, con Medici senza Frontiere, Croce Rossa e altre associazioni, nelle zone più disperate della nostra terra, cercando di aiutare con la sua capacità professionale e la sua umanità gli ultimi del mondo. Nel 2013 si è licenziata per dedicarsi al lavoro umanitario per andare a lavorare all’estero seguendo la sua unica vera passione. Nel 2014 si è trasferita in Guyana Francese dove si è dedicata soprattutto al lavoro umanitario. Una donna che i soldi che le aveva lasciato il fratello aveva già deciso di destinarli in beneficenza. Quando è stata arrestata, al suo rientro in Italia, aveva già preso contatti a Roma con Medici Senza Frontiere per donare quel milione di euro che il Pm ritiene essere il movente di un omicidio che Marzia non ha mai commesso».
Pensa che la sua assistita abbia commesso errori?
«Marzia ha commesso degli errori. Il primo: ha accettato di rivedere la sua famiglia dopo anni di rapporti interrotti a seguito di differenze insanabili. Ha poi accettato un ruolo troppo complicato, difficile da sostenere e una molteplicità di funzioni che sono incompatibili tra di loro. Era la sorella, nella quale Marco riponeva le sue aspettative di guarigione e il medico che lo ha accompagnato nella fase della sedazione quando le sue condizioni non permettevano più in nessun modo di gestirlo. Marco è stato sedato la mattina del 25 settembre perché aveva una crisi respiratoria grave che imponeva la sedazione palliativa».
Un trattamento previsto nelle cure palliative?
«Un trattamento dovuto ad un paziente terminale. Una sedazione che, a differenza di quello che è stato detto, era stata comunicata a tutti i medici che lo avevano seguito e soprattutto al palliativista che lo aveva in carico dopo che era stato dimesso dall’ospedale di Livorno. Marco Valerio, infatti, aveva cessato la chemio per la cura del tumore dal 12 di agosto 2015 e l’11 settembre, a causa delle sue scadute condizioni fisiche, era stato dimesso e assegnato alle cure palliative: Marco voleva morire a casa propria. La presenza della sorella, medico anestesista, ha permesso a Marco di non finire la sua vita in un Hospice e la possibilità di essere assistito a casa. Per Marco c’era un dottore in più, che era sua sorella».
Cosa è successo il 25 settembre 2015?
«Marco in preda alla crisi respiratoria ha chiamato la sorella alle 7 del mattino così come aveva fatto il giorno precedente alle 5. Marzia ha subito avvertito il palliativista e l’oncologo di Milano (risulta sia dalle testimonianze che dai tabulati telefonici). I contatti sono stati ripetuti nel corso della giornata. Con l’avallo del palliativista la sedazione è iniziata intorno a mezzogiorno, e si è conclusa con la morte di Marco alle 19, 40. Hanno assistito tantissime persone, la fidanzata, la collega di studio, la vecchia collega di studio di Marco Valerio, una carissima amica che da una settimana lo andava a trovare ogni giorno cosciente dell’imminenza della morte, la madre, la colf, un infermiere della rianimazione di Pisa e Marzia. Sono sopraggiunti a casa di Marco, un giudice del Tribunale di La Spezia, la dottoressa Diana Brusacà con il signor Rampini, un conoscente di Marco ed infine il palliativista che, dopo essere stato chiamato per tutta la giornata, è intervenuto alle 17 visitandolo e compilando la cartella clinica. Una sedazione che chiunque ne ha avuto notizia poteva interrompere, se riteneva che non fosse adeguata. Ma nessuno si è stupito né è intervenuto, perché tutti sapevano che Marco era un uomo oramai morente».
È emersa una tormentata vicenda familiare, quanto ha inciso?
«Di questo elemento bisogna parlare per riscattare la figura di Marzia che è stata allontanata dalla famiglia a 20 anni e proprio perché il Pm l’ha strumentalizzata. Le scelte di vita di Marzia non erano condivise né tollerabili per la sua famiglia, Marco in primis. Così ogni rapporto e qualsiasi contatto era stato interrotto. Nel 1986 l’hanno lasciata a sé stessa, a lavorare per mantenersi all’università. Eppure si è laureata e ha iniziato una brillante carriera che l’ha portata ad essere uno dei medici più stimati dell’ospedale pisano, una degli anestesisti più stimati del reparto di Rianimazione guidato dal professor Paolo Malacarne. Una donna che ha fatto tante esperienze all’estero. Ma quando il fratello si è ammalato, pur avvertita da una familiare e poi da un collega, non è tornata subito in Italia, proprio per la complessità dei rapporti familiari. Sapeva della malattia, l’ha seguita da lontano grazie alle informazioni che aveva dai colleghi pisani. È tornata nel novembre 2014, quando il fratello l’ha chiamata. E questo in seguito le ha provocato un senso di colpa grandissimo. Si è resa conto infatti che la strada terapeutica che il fratello aveva intrapreso era sbagliata. E questo ha dilaniato Marzia che si è sentita responsabile della scelta iniziale. Nel novembre 2015, dopo la morte del fratello, è tornata in Guyana Francese, ma questo ha peggiorato i suoi sensi di colpa».
È di questo periodo la “fatidica” telefonata all’amica?
«Ci siamo dimenticati che esiste il reato di autocalunnia? È una telefonata che, inoltre va inserita in un contesto preciso. È noto che molti operatori dei reparti di cure palliative o degli Hospice, se coinvolti in una sedazione terminale, provino un forte stress oltre alla sensazione di sconfitta. Pensiamo a cosa può aver pensato una sorella che ha iniziato la sedazione del fratello quando già era dilaniata dal senso di colpa. Il culmine di questo senso di colpa è stata la telefonata con l’amica del fratello Marco e in quell’occasione si è assunta la responsabilità della sua morte, dicendo che lui era morto perché lo aveva sedato. Il suo telefono era già sotto, lei era indagata per il falso testamento, per avere scritto sotto dettatura il testamento del fratello che poi lo aveva firmato. Pensa di avere ucciso il fratello con la sedazione, che peraltro avrebbe dovuto eseguire il suo medico palliativista. Un indizio che non è stato verificato ma tale resta: un indizio. Bisognava essere sicuri che fosse vero che Marco quel giorno non sarebbe morto. In realtà, come dicono i consulenti, era ormai divorato dall’ennesima metastasi della sua malattia, la linfangite carcinomatosa. Il servizio di assistenza domiciliare per quel giorno aveva prescritto una emogasanalisi per decidere se passare all’ossigeno liquido. Il risultato di questo esame è la prova matematica della criticità respiratoria di Marco. Quella è la prova che avrebbe dovuto dare la certezza che Marco non è stato ucciso. Non sedarlo avrebbe significato farlo morire asfissiato. Noi abbiamo portato consulenti di fama internazionale che lo hanno affermato. Abbiamo creduto che giustizia sarebbe stata fatta e che a Marzia fosse restituita a quella vita che ha impegnato anni ed energie per crearsi. Purtroppo non è stato così».
Farete appello contro?
«Leggeremo la sentenza ma l’appello direi che è scontato. Vorrei però aggiungere che oggi Marzia è incredula ed impietrita dalla forza di questa sentenza di condanna. Ma al tempo stesso è anche la donna che dopo quattro anni in cui è stata al centro di questa inchiesta, in piena emergenza Covid, è tornata a fare il medico volontario, dimostrando la sua umanità e le sue capacità. È stata chiamata all’ospedale di Crema dove ancora lavora. A questa donna, a questa professionista, sono stati dati 15 anni di reclusione per un omicidio che non ha commesso. Andremo avanti per dimostrare la sua innocenza».
Intanto su Facebook da anni è stata aperta dagli amici una pagina dedicata a “Marzia Corini, la sua vera storia” dove non mancano gli attestati e le testimonianze di stima nei confronti della dottoressa.