Entrare in Syria non era semplice . Il governo siriano non aveva dato il consenso ufficiale alle organizzazione umanitarie per l’ingresso nel paese. Medici senza Frontiere aveva comunque deciso di aiutare vari ospedali , tra cui uno a poche decine di chilometri dalla frontiera turca .
Era freddo il giorno che attraversai la frontiera a piedi agli inizi di Febbraio del 2013.
Il cielo era basso e grigio mentre camminavo tra i due check point. Una distanza triste, mi ricordo pensai così mentre mi avvicinavo al controllo passaporti siriano . “NO MEN’S LAND“ così si chiama la distanza tra due paesi, la terra di nessuno .
Per la prima volta in missione senza nessuna copertura, nessun logo a dimostrare per chi lavoravo. Quasi fossi un turista svagato e incosciente, che entra in una zona di guerra.
La macchina in Turchia aspettava di sapere che mi avevano lasciato entrare, prima di lasciare la frontiera.
Un’altra macchina mi aspettava al di là della sbarra siriana.
L’addetto al controllo guardò lungamente il mio passaporto. Tanti visti di ingresso in paesi difficili, forse troppi per lui?
Guardava la mia fotografia e riguardava me, il fatto che non parlassimo la stessa lingua gli impediva di fare domande .
Il colpo secco del timbro, e poi lentamente il mio passaporto scivolò sotto il vetro. Quello era il mio permesso di entrare.
Camminai per qualche centinaio di metri, due uomini scesero da una vecchia macchina grigia.
Anonima come il colore del cielo.
Un uomo dal forte accento inglese chiamò il mio nome.
Mentre mi avvicinavo sentii che via radio comunicava alla macchina in Turchia che era tutto a posto.
Ero entrata, poteva andare via.
La Syria, che avevo visto oltre 10 anni prima, aspettando il permesso di entrare in Iraq, era irriconoscibile.
Quel paese meraviglioso, così intriso di storia, era diventato solo desolazione, terrore e macerie.
Durante il tragitto Jonathan, si presentò. Era il Coordinatore del progetto ad Al Salamah, il piccolo paese dove ci stavamo dirigendo.
Mi diede indicazioni sulla situazione, così terribilmente instabile, le regole di sicurezza, il basso profilo che avremmo dovuto tenere.
Nessuna visibilità, nessun segno della nostra presenza.
Il rumore delle bombe, scandiva di tanto in tanto le sue parole.
Mi insegnò una parola araba che dovevo sapere: Taiara. Aerei.
Se avessi sentito gridare quella parola, sarei dovuta andare nel bunker dell’Ospedale.
Aerei voleva dire anche bombardamenti.
Piano piano, con il tempo, avrei imparato che invece al grido “Taiara”, molti di noi uscivano fuori, per vedere dove si dirigessero gli aerei. Per capire quale zona avrebbero bombardato.
In guerra si impara a convivere con cose spaventose e subito dopo si sottovaluta il rischio. Forse per impedire che la paura strangoli la vita. Semplicemente si accetta l’inaccettabile.
La quotidianità è fatta di cose assurde e la vita scivola in un limbo tra normalità e pazzia.
Sono accadute tante cose in Syria, durante la mia missione; ma non potevo sapere che la più significativa per me non avrebbe avuto a che fare con la guerra.
Pochi giorni dopo il mio arrivo, un missile colpì il terreno a poche centinaia di metri dalla nostra casa.
Esplosero i vetri , i muri tremarono, una voragine restò lì a ricordarci che in un secondo avremmo potuto confonderci con il fango.
Arrivarono subito i responsabili del progetto da Barcellona.
Parlarono con il governo, cercando assicurazioni ufficiali per la nostra indennità.
Le trattative portarono a conclusioni incerte. La decisione finale fu allora di ridurre il personale presente sul campo, per ridurre l’esposizione al rischio.
Accettammo tutti di restare, eravamo 13 persone, ma solo 5 vennero lasciate in Syria. Io ero tra quelle cinque.
Restò chi era in qualche modo indispensabile, perché non sostituibile con il personale locale.
La stanza che dividevo con altre 4 persone divenne la mia stanza.
Guardavo quei materassi per terra e sapevo che le persone che erano state costrette a lasciarli avrebbero voluto essere lì.
La notte faceva molto freddo, a tratti nevicava.
Ogni stanza aveva una stufa a legna; a parte le bombe si sentiva solo lo scoppiettare del fuoco.
Solo una volta tornata a casa, quando aprì la mia valigia in Italia, mi accorsi di quanto i miei vestiti odoravano di fumo.
Per la prima volta in tutta la mia vita in Syria ebbi a che fare con le persone torturate.
Ne ricordo uno in particolare e so che lo porterò dentro di me fino alla fine della mia vita.
I suoi occhi avevano visto l’orrore. Il suo corpo ne portava i segni.
Mi arrivò dritto al cuore sin dal primo giorno che lo vidi nel letto dell’ospedale.
Trovammo il modo di superare la lingua che ci separava. Ci parlavamo con gli occhi, con i sorrisi, lui mi raccontava della sua voglia di vivere, io della mia empatia.
Gli compravo ogni giorno dei dolci, in un piccolo sgabuzzino gestito da un bimbo poco più che dodicenne.
Era la nostra piccola routine, il nostro modo muto di volerci bene; con i sorrisi ci prendevamo cura una dell’altra.
Arrivò il giorno in cui lui venne dimesso. Il suo corpo era guarito.
Aspettò il mio arrivo all’ingresso dell’Ospedale. Lo guardai felice di vederlo tornare alla sua famiglia.
Aveva in mano un piccolo sacchetto, pieno di dolci. Questa volta erano per me.
Lui musulmano. Io cristiana. Nel piazzale dell’Ospedale.
Di fronte a tutti mi abbracciò forte e piangemmo insieme, di gioia, di tristezza, di paura del futuro, della vita.
L’abbraccio più pieno e puro che io possa ricordare.
E’ ancora qui, adesso, con me. E ci resterà per sempre.
Ma quella notte alla fine arrivò.
Ero sola nella mia stanza, il fuoco , le bombe lontane, il freddo e il buio fitto fuori.
Il mio telefono squillò. Il mio telefono italiano quasi sempre spento, squillò.
Allungai il braccio per rispondere, inconsapevole che quel semplice gesto avrebbe cambiato la mia vita da lì a poco.
Una voce di donna , mia cugina. La sola di tutta la mia famiglia ad avere il mio numero.
Poche parole . “ tuo fratello ha un cancro “
Ero seduta sul materasso per terra. Fissavo il buio. Cercavo di trovare un’emozione giusta. Mi sembrava di doverla trovare in fretta nel silenzio che incalzava dall’altra parte del telefono.
Ma non ci riuscivo. Il groviglio dentro di me era troppo grande.
La deflagrazione più grande che avessi mai sentito, scoppiò esattamente dentro di me.
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