Orizzonti 7

Luglio 2000. Point Pedro . Nord Sry Lanka ( penisola di Jaffna)
Arrivai a Colombo con un aereo di linea, insieme a turisti e coppie in viaggio di nozze che si recavano al Sud dell’isola,
La linea che ci separò fu molto netta sin dall’uscita dell’aeroporto .
Da una parte autisti in livrea che agitavano nomi su cartelli di plastica , o pullman di agenzie turistiche che aspettavano oziando sotto il sole indiano; dalla mia una Land Rover con il Logo di Medici senza Frontiere.
La mia prima missione in una zona di guerra. La mia vera missione per me. Il primo viaggio incredibile.
Il mio zaino venne caricato sul retro del fuoristrada e un autista dall’inglese improbabile mi accompagnò all’ufficio di MsF a Colombo .
Pochi minuti di macchina in una citta decadente, che mostrava senza vergogna gli sfarzi di un tempo ed arrivammo alla meta.
Tante ore di volo e il fuso orario appesantivano i miei occhi . Ma dovevo incontrarmi con molte persone dell’ufficio prima di poter riposare.
La mattina dopo, sarei dovuta partire all’alba per un lungo viaggio in macchina che mi avrebbe fatto attraversare l’isola portandomi sull’altra costa e più a Nord. Il solo punto dal quale raggiungere la penisola di Jaffna, dove la guerra delle tigri Tamil imperversava da oltre 18 anni.
Non esistevano strade per raggiungerla, né voli. Tutto era bloccato.
Solo una chiatta della Croce Rossa cercava di garantire, settimanalmente, un viaggio verso Point Pedro.
Così passai da ufficio ad ufficio, dove mi mettevano al corrente della situazione geopolitica, delle regole di sicurezza, del coprifuoco , dell’embargo imposto dal governo, il controllo dei vaccini.
La sera mi addormentai vestita sul letto della mia camera spoglia, quella che accoglieva per poche ore tutto il personale umanitario di MsF in transito verso la guerra.
Mi svegliò un boato nella notte silenziosa. Non ebbi il tempo di capire. Non avevo l’orecchio abituato a capire.
Una granata era scoppiata a pochi isolati da noi.
Il sole si alzò piano ma cocente nell’aria umida del mattino e ci sorprese mentre caricavamo la macchina che mi avrebbe portato a Trincomalee.
Dieci ore di macchina in una strada che si snodava tra una vegetazione così fitta da impedire di vedere il cielo.
L’autista cercava di parlare con me con il suo inglese arrotato e confuso. Io mi sforzavo di comprendere.
Portavamo con noi provviste di cibo per il personale umanitario di Point Pedro e farmaci vietati dall’embargo. Fiale di ossitocina affogate in giare di yogurt, qualche ferro chirurgico che avrei dovuto nascondere sotto i vestiti, avvolgendoli col cerotto sulla pancia e sulla schiena.
Il Governo ci lasciava entrare ma ci impediva di aiutare la popolazione, per paura che avremmo curato anche i guerriglieri Tamil.
Sabotava gli aiuti umanitari, impedendo di portare farmaci o materiale sanitario.
Finalmente arrivammo a Trincomalee.
Venni lasciata in una improbabile “ guest house” dove avrei dovuto attendere l’ora per recarmi al porto.
Ricorderò per sempre quella stanza.
Non ebbi il coraggio di sdraiarmi sul letto. Il pavimento per quanto sporco e pieno di scarafaggi sembrava il posto più allettante.
Le mura dipinte a calce grondavano muffa, ovunque girassi lo sguardo non vedevo che insetti.
Mi addormentai con la testa sullo zaino, cullata dal rumore dell’acqua che gocciolava lenta da tubature rotte. Ero sfinita e non importava dove, avevo bisogno di riposare.
Mi svegliai qualche ora dopo. Il collo e la schiena sembravano essere stati stritolati in una morsa. Dovevo prepararmi in fretta. Avevo con me del cerotto di tela per medicazioni.
Iniziai ad avvolgerlo intorno alla vita e ai fianchi per sorreggere i ferri chirurgici sotto i vestiti.
Il caldo era soffocante, il sudore rischiava di staccare il cerotto . Si erano raccomandati a Colombo di fare questa manovra all’ultimo minuto.
“ Non dovrebbero perquisire le persone, solo i bagagli “ questo era l’augurio con cui mi avevano salutato .
Girai più volte il cerotto attorno a me finchè mi sembrò di non poter più respirare.
Mi rivestii, presi il mio zaino e mi incamminai verso il porto.
La chiatta della Croce Rossa era attraccata ad un molo di cemento. Una lunga fila umana guidava verso di lei.
Dei containers erano caricati sulla sua parte centrale. Seppi che lì avrebbero alloggiato pazienti che rientravano a Jaffna.
Davanti a loro un’enorme catasta di cipolle e patate.
Prima di imbarcarsi, un tavolo su cui posare i propri bagagli. Venivano aperti tutti ed il loro contenuto rovesciato all’esterno e ispezionato con cura.
Aspettavo il mio turno.
Non vedevo altri occidentali nella fila.
I militari parlavano Tamil, urlavano verso i locali, gettavano a terra materiale per loro proibito.
Non avevo veramente un progetto se mi avessero perquisito sotto i vestiti. Potevo solo sperare che non sarebbe successo.
Improvvisamente mi trovai di fronte ad militare, gli mostrai la copia del mio passaporto con il timbro di MsF , capii di dover aprire lo zaino.
Non incontrai il suo sguardo né lo cercai.
Ormai il cerotto tirava sulla pelle così tanto che avrei voluto scorticarmi. Non mossi un muscolo. Solo alla fine mi guardò e mi fece cenno di avviarmi verso la chiatta.
Mi accolse un francese, con la pelle bruciata dal sole.
Mi portò nella sola cabina della chiatta. Due letti a castello. Avrei viaggiato con due uomini di U.N. e uno dell’UNICEF.
Cenammo insieme al “ capitano “ francese ed ai marinai in cucina.
Mi spiegarono che la chiatta sarebbe uscita in mare aperto per 50 miglia e poi avrebbe piegato verso Jaffna per evitare i bombardamenti.
Ricordo dei sapori di spezie, uova e verdura, mentre mille lingue diverse si avvicendavano a quel tavolo .
Non so a che ora arrivammo in cabina, ma presto scoprii che tutti avrebbero preso delle pillole per il mal di mare.
Cinquanta miglia in mare aperto nell’Oceano Indiano voleva dire incontrare onde molto alte.
Io non avevo niente e non mi addormentai.
Dopo qualche ora il rollio mi faceva sbattere la testa e i piedi al ritmo del mare.
Ondeggiavo sulla cuccetta.
Guardai l’orologio , erano le tre del mattino .
Decisi di uscire fuori . Volevo vedere quel mare scuro e infuriato.
Ero a poppa della chiatta, appoggiata ad una piccola balaustra.
Una luce fortissima la illuminava dall’alto. Si intravedeva la prua .
La murata era bassissima, forse un metro.
Delle onde gigantesche spazzavano la chiatta, la loro schiuma rifletteva la luce e si disperdeva in un caleidoscopio di colori che si fondevano con la notte.
Pensai che se fossi caduta in mare in quel momento esatto, nessuno se ne sarebbe accorto fino al giorno successivo.
Mi sentii un piccolissimo puntino in una immensità . Un nulla. Il niente.
Una sensazione fortissima, violenta. Nella pancia, nella testa , nel cuore .
Fu esattamente lì che la incontrai per la prima volta.
Una strabiliante, potente , incredibile sensazione.
La purezza della libertà.

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