POINT PEDRO, PENISOLA DI JAFFNA . SRY LANKA – 2000
Il coprifuoco iniziava alle 6 del pomeriggio e terminava alle 6 del mattino . Non era importante il colore della pelle o il logo sulla maglia. L’ordine era di sparare a vista se trovati in strada durante quelle ore.
Ore che scandivano le nostre giornate nel caldo del Nord dello Sry Lanka, come il rumore delle bombe scandiva le notti, insieme al rumore assordante degli elicotteri a volo radente.
Una notte la radio trovò spazio tra i rumori sordi delle esplosioni.
L’Ospedale aveva bisogno di medici, era arrivata un’urgenza che gli infermieri non potevano affrontare.
Dalla nostra casa le mura dell’Ospedale distavano poche centinaia di metri, pochi minuti a piedi. Ma durante il coprifuoco quella distanza era immensa.
Il responsabile della sicurezza iniziò un frenetico contatto radio, con le diverse fazioni di guerriglieri ed esercito, per avere garanzie che non ci avrebbero sparato in quel corto viale sterrato che ci separava dall’entrata dell’ospedale.
Io ed il chirurgo eravamo pronti ad andare, ma mancavano ancora tutte le “green lights “ necessarie per avere la certezza che saremmo arrivati vivi.
Finalmente arrivò il momento di andare.
La macchina aveva tutte le luci accese, le bandiere ben in vista. Impossibile non riconoscere che eravamo personale umanitario .
Lasciammo il cancello di casa alle nostre spalle. Il silenzio nella macchina era fitto come la notte.
Di certo ognuno di noi aveva paura, pensandoci ora ne sono certa. Ma in quel momento era tutto così assurdo da sembrare possibile.
La guerra distorce la realtà. La rende credibile anche quando tutto è solo follia.
Entrati in ospedale, percorremmo le corsie di terra battuta. Attraversammo piccoli padiglioni dove mucche sonnolente si lasciavano cullare dal buio. La notte attraversata solo dalla luce delle nostre torce
Arrivammo nella stanza. La luce era fioca, illuminata da lampade a petrolio e candele. Il rumore assordante. Le urla formavano un muro attorno ad una barella di ferro arrugginito.
Ci facemmo largo tra quella gente , spingendo , sbandando.
Su quella barella era distesa una bambina di non più di 12 anni. Coperta di stracci lisi e sporchi.
Intorno alla sua testa, si allargava piano una macchia di sangue . Gocciolava lentamente al suolo, mescolandosi alla terra battuta.
Il caldo di quella notte, in quella stanza crudele, era irrespirabile. Era un caldo dolce di sangue, fitto e spesso come fosse liquido.
Il frastuono era assordante, le urla dei parenti, l’odore di caldo e sangue, la lordura immonda in cui questa tragedia si stava consumando.
Appoggiai le spalle al muro, sentivo le gambe cedere e la testa fredda. Era tutto così troppo violento. Tutto sembrava esasperato.
Sussurrai al chirurgo la mia disperazione. Non avrei potuto farcela questa volta.
Lui mi strinse forte la mano. Mi sorrise. E per un attimo tutto si fermò in quella stanza. E io ripresi a respirare.
Ci accostammo alla bambina. La sua testa era stata fracassata con delle pietre. Una lite banale per il possesso di una mucca.
Tanti anni di guerra, rendono possibile l’inimmaginabile. La violenza e la morte erano eventi ordinari.
In quel piccolo ospedale non avevamo i mezzi per poterla aiutare. Respirava a fatica. Non avevamo molto tempo per decidere. Se fosse rimasta da noi sarebbe morta.
Dovevamo portarla a Jaffna, a circa 20 kilometri da noi , attraversando il fronte di guerra.
Erano le tre di notte.
Contattammo il responsabile delle sicurezza a casa. Doveva ottenere il permesso da tutti i check points che avremmo incontrato e il permesso dalla capitale, Colombo, per poterci avventurare in quel viaggio.
La garanzia, ancora una volta , che non ci avrebbero sparato vedendoci avvicinare.
Iniziammo a preparare quella bambina, lavandole le ferite, bendandole la testa. Il suo corpo inerme, come fosse già altrove.
Dopo poco più di un’ora arrivò il permesso. Sapevamo benissimo che non era una reale garanzia. Era una sorta di promessa che nessuno ci avrebbe ucciso. Un cieco gioco di fiducia. Una parola data nella follia della guerra. In una giostra dove una vita in più o in meno non aveva alcun valore.
Sarebbe stato inutile e rischioso andare in due. Decidemmo che l’avrei accompagnata io, insieme all’autista dell’ambulanza.
Carlo, questo era il nome del chirurgo, mi aiutò a sistemare la bambina dentro quell’ambulanza spoglia.
Ci guardammo negli occhi, ci sorridemmo prima di lasciarci. Non una parola. Ma mille in quel silenzio.
Poi la porta si chiuse e rimasi sola con il mio destino e quella bimba.
Mano mano che ci avvicinavamo alla linea di guerra, il rumore delle bombe e delle granate si faceva sempre più netto.
Non ho idea di quanto tempo fosse passato dalla nostra partenza. Né io né l’autista avevamo detto una parola. Stavamo galleggiando in quella realtà sospesa. Guardavo solo le mie mani gonfiare e sgonfiare quel palloncino che la teneva in vita, obbligandola a respirare.
All’improvviso sentii solo la macchina rallentare e poi fermarsi.
La porta dell’ambulanza di aprì con violenza e vidi prima il mitra puntato verso di me dell’uomo che lo teneva.
Quell’uomo aveva la pelle scura e vedevo a malapena i suoi occhi neri nel buio della notte.
Era così vicino il suo fucile che mi sembrava di sentirne il freddo della canna sulla pelle.
Le mie mani continuavano a ventilare quella bambina.
Guardò immobile all’interno dell’ambulanza, senza mai perdermi di mira.
Ricordo che pensai quanto poco valesse la mia vita ai suoi occhi. Sarebbe bastato un impercettibile movimento del suo dito sul grilletto. Non ci sarebbe stata alcuna conseguenza.
Urlò qualcosa in Tamil verso la notte. Poi lo schianto della porta che si richiudeva. La macchina ripartì piano, forse anche lei era incredula.
Solo allora mi accorsi di quanto il mio cuore aveva inciampato in quei lunghissimi minuti. Solo allora ripresi a respirare anche io.
Sono passati 20 anni da quel momento. Allora come adesso pensai che se fossi morta sarebbe stato per una giusta causa. Che ne sarebbe valsa la pena.
Non seppi più niente di quella bambina dopo averla lasciata nella Rianimazione di Jaffna.
Ogni tanto mi lascio cullare dall’idea che ora sia una donna, libera di vivere la sua vita senza l’orrore della guerra.
Subscribe
Login
0 Commenti